Manifesto

Enrico Petrilli

NUOVE ALLEANZE PER LA DISSIDANZA

Il dancefloor è sempre stato uno spazio politico, ancora prima che la musica elettronica da ballo iniziasse a prendere possesso dei nostri corpi. Nel Quartiere latino di Parigi, in quelle che Primo Moroni battezza “cave esistenzialiste”, inizia a germogliare il seme della ribellione che sboccerà nel Maggio ’68. Nello stesso periodo, le feste di David Mancuso a New York – oltre a diventare il prototipo del clubbing contemporaneo – sono uno dei pochi rifugi sicuri per i soggetti LGBT, in un periodo in cui è ancora proibito il ballo in coppia tra maschi. 

Le arti sovversive della dissidanza – la dissidenza del corpo che balla in estasi – accelerano vertiginosamente grazie alle sperimentazioni sonico-tecnologiche di Larry Levan e Frankie Knuckles. In una società – oggi come allora – definita dal razzismo istituzionalizzato, il proliferare di feste e suoni elettronici significa per le persone afro- e latino-americane l’essersi autonomamente costruiti una nuova arena dove poter esprimere le proprie istanze e, contemporaneamente, una nuova modalità per dargli forma. 

Con il passaggio in UK e la Second summer of love, la pista da ballo è in grado di riunire hooligan, fighettə, figlə di immigrati ed alternativə vari. Un fronte così diversificato non si era mai visto nella storia delle culture giovani, detto altrimenti: è un gigantesco vaffanculo all’individualismo thatcheriano. E quando l’Europa è contagiata dai free party si ampli(fic)ano gli spazi del conflitto, rendendo sempre più esplicito e radicale il portato politico delle feste. La conosciamo bene in Italia questa storia, nonostante sia stata sistematicamente delegittimata, perché abbiamo contribuito a fomentarla con le nostre feste. 

I free party sono stati probabilmente l’apice, ma non la fine della dissidanza. Da allora i dancefloor hanno appreso il sapere pratico dei collettivi queer e transfemministi, ed oggi sono stravolti dalla rivoluzione sonica delle soggettività e dei suoni della diaspora. Una politica che non rimane solo chiusa nei club ma esplode anche per strada, come a Tbilisi dove i clubber hanno risposto agli abusi delle forze dell’ordine, uniti nello slogan we dance together – we fight together. Come in Cile e poi nel resto del mondo, quando gruppi di donnə vestite a festa hanno cantato e ballato Un violador en tu camino per denunciare le violenze subite quotidianamente.  

Tuttavia, non possono essere ignorati i sempre più numerosi attacchi agli spazi dove imparare l’arte indisciplinata della socialità danzante. I free-party sono sistematicamente proibiti e criminalizzati perché, fieramente ostinati nei propri principi, non si piegano alla nuova ragione del mondo neoliberista. In maniera simile e paradossale, i club di musica elettronica sono sempre meno benvenuti nelle città contemporanee, vittime delle forze sanitizzanti della gentrificazione. Fonte di rumore, degrado e pericolose effervescenze collettive subiscono processi di securitizzazione e commercializzazione che favoriscono spazi ricreativi socialmente accettati come palestre e ristoranti.

Pure la musica non sembra più la stessa ad un orecchio non attento. Pseudo-generi come la business techno ci dicono qualcosa che sapevamo da tempo: il mercato si sta mangiando anche il suono alieno per eccellenza; mentre veri e propri generi come la conceptronica ci parlano di una musica sempre più piegata all’astrazione accademica e lontana dall’insorgenza politica dei corpi che ballano. Eppure, la musica elettronica è ancora capace di essere una tecnologia per la sovversione sonica del corpo, ovvero favorire quei processi di metamorfosi sintetizzati da Kodwo Eshun con l’espressione “orecchie [che] cominciano a vedere”. Lo dimostreranno al ROBOT Festival il b2b tra le selezioni sfrontate e schizofreniche di Crystalmess e l’archeologia tra i detriti dei suoni urban di Lee Gamble, la trascendenza cerebrale di Jeff Mills, l’anti-spettacolo multimediale degli Amnesia Scanner, il bad trip senza via di scampo di Scotch Rolex e Shackleton, eccetera eccetera eccetera.

Il manifesto dell’edizione 2023 del ROBOT Festival è rivolto contemporaneamente al passato, al presente e al futuro. Richiamare la storia della dissidanza non vuole alimentare il retrogusto nostalgico di un passato glorioso, quanto piuttosto materializzare lo scenario di crisi del presente per proiettarci verso future alleanze sul dancefloor. Paradigmatico di questa possibilità generativa dei legami cinetici è Universal Tongue, presentato con un’installazione audiovisiva proiettata sulle mura storiche di Palazzo Re Enzo. Una danzaclopedia che raccoglie multiformi stili di danza e, allo stesso tempo, la dimostrazione di una possibile congiunzione planetaria tra corpi in estasi. Perché come ci ha insegnato Dale Pendell in PharmakoDynamis: la devozione allegra del ballo è una forma di comunicazione antecedente alla parola.

 

We dance together, we become other.

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